Consiglio Competitività: nulla di fatto sul ‘Made In’

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Gli scorsi 28 e 29 maggio, si tenuto a Bruxelles il Consiglio Competitività dell’ UE, presieduto dalla presidenza di turno nella persona di Dana Reizniece-Ozola, ministro dell’ economia lettone. Ad avere esito positivo, sono state le discussioni sulla riforma della legislazione europea sui pacchetti turistici, la creazione di uno status europeo per le S.r.l. a socio unico per facilitare la creazione di nuove imprese e l’approvazione di una nuova roadmap per il completamento di ERA, lo Spazio Europeo per la Ricerca. Risulta invece deludente per l’Italia l’impossibilità di raggiungere un accordo sulla questione più spinosa del pacchetto regolamentare sulla sicurezza dei prodotti: l’introduzione dell’obbligo di etichettatura di origine delle merci in settori non alimentari, il cosiddetto ‘Made In’.

Il dibattito e lo studio della Commissione

L’inserimento dell’indicazione d’origine sui prodotti UE è parte della bozza di regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo approvata ad aprile 2014 dal Parlamento Europeo e proposta l’anno precedente dai Commissari Tajani e Borg – finalizzata ad una maggiore tracciabilità dei prodotti da parte dei consumatori. Questi ultimi potrebbero infatti decidere se acquistare o meno un bene in base agli standard qualitativi, lavorativi e sociali del paese UE di produzione – fattore che favorirebbe paesi differenti in differenti settori industriali o manifatturieri.  La discussione a riguardo ha creato un’ opposizione tra paesi nordeuropei e mediterranei, con un fronte di contrari guidato da Belgio, Danimarca, Gran Bretagna, Irlanda, Olanda e Svezia. Nel tentativo di superare questa fase di stallo, la Commissione ha presentato uno studio d’impatto per comprendere le possibili conseguenze per le economie europee dell’obbligo del ‘Made In’, che avrebbe dovuto aiutare a rendere più informata la discussione in sede di Consiglio. Lo studio ha invitato ad un approccio per settori produttivi, prendendo in considerazione giocattoli, elettrodomestici, elettronica, tessile, calzature e ceramiche. Il documento sottolinea la difficoltà di valutare un impatto generale, che sembrerebbe però più positivo in termini di facilità di applicazione e di capacità di tracciabilità dei consumatori nei settori con filiere produttive meno complesse come ceramiche, calzature e alcuni prodotti tessili.

Il tentativo di mediazione e la posizione italiana

A pochi giorni dalla seduta di Consiglio, la presidenza lettone si è fatta promotrice di un possibile compromesso, proponendo di tentare un approccio di applicazione della norma per singoli settori, riuscendo così a convincere alcuni paesi tendenzialmente contrari come la Polonia. Sembrava quindi essersi aperto uno spiraglio di negoziazione per l’Italia, decisa a ‘portare a casa’ l’obbligo del ‘Made In’ in cinque settori chiave per le PMI nostrane: ceramiche, calzature, tessile, gioielleria e mobili. Il negoziatore italiano – il Vice Ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda – ha parlato di una misura necessaria alla tutela dei consumatori europei, affermando che l’Italia sarebbe stata disponibile ad accettare l’inserimento di una clausola di revisione del regolamento dopo tre anni. Ciò nonostante, l’incontro si è concluso in un nulla di fatto.

Le prospettive del Made in Italy

La posta in gioco della misura è chiara: come indicato dallo studio d’impatto della Commissione, a beneficiare della misura in settori come il tessile sarebbero le imprese il cui marchio non è molto conosciuto ma che risiedono in un paese percepito come produttore di qualità – come l’Italia con il suo frammentato sistema di PMI.  Meno positivo sarebbe invece l’impatto su paesi con settori industriali a filiera complessa – come ad esempio in ambito elettronico e tecnologico – che importano componenti da moltissimi paesi diversi e avrebbero costi di adattamento molto alti senza garanzie di alcun beneficio. L’importanza della partita per l’Italia è anche suggerita dai dati presentati da Confindustria nel corso dell’edizione 2015 dell’incontro ‘Esportare la dolce vita’ tenutosi ad Expo a maggio. Secondo lo studio, l’export di prodotti italiani di fascia medio-alta nei settori produttivi chiave del paese crescerà da  11 miliardi del 2014 a 16 miliardi nel 2020, aumentando del 45% in sei anni – grazie soprattutto alla domanda dei ‘nuovi ricchi’ di paesi in via di sviluppo come Cina, India e Indonesia.

di Riccardo Trobbiani

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